Venezia (giovedì, 9 ottobre 2025) – Israele e Hamas hanno firmato nella notte di mercoledì un accordo sulla prima fase del piano di pace per Gaza, elaborato dal presidente statunitense Donald Trump e mediato da Qatar, Egitto, Turchia e Stati Uniti. L’accordo dopo due anni di guerra e oltre 67 mila morti palestinesi.
di Maria Laura Melis
Un cessate il fuoco imminente
La notizia, confermata sia dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu sia da Hamas, potrebbe essere un possibile punto di svolta nel conflitto che devasta la Striscia dal 2023, ma molti dettagli dell’intesa restano ancora da chiarire. Per Trump, questo accordo potrebbe essere il più grande successo diplomatico della sua presidenza, e insieme, una rivincita politica su chi, nei mesi scorsi, aveva messo in dubbio la sua capacità di mediazione. Ma, come molti osservatori hanno sottolineato, molte cose possono ancora andare storte. La firma riguarda soltanto la prima fase del piano e i nodi più difficili, fra cui il futuro politico di Gaza e la smilitarizzazione di Hamas, restano ancora punti da affrontare nel pratico.
Secondo le informazioni diffuse finora, il cessate il fuoco dovrebbe entrare in vigore entro 24 ore dall’approvazione ufficiale dell’accordo da parte del governo israeliano, quindi presumibilmente entro la serata di venerdì. Nel frattempo l’esercito israeliano inizierà un ritiro parzialee graduale. Quest’ultimo al momento sembrerebbe controllare oltre l’80 per cento del territorio di Gaza. Almeno in questa prima fase dovrebbe arretrare fino a occuparne circa il 53 per cento.
Si tratta solo di un primo passo, previsto dal piano in più fasi elaborato da Trump, che nei punti successivi, che in totale sono venti, indica un ritiro progressivo fino a lasciare una zona cuscinetto lungo il confine. Le fasi successive, però, sono più delicate e potrebbero fallire più facilmente. Riguarderanno la governance futura della Striscia e il disarmo di Hamas, temi su cui le posizioni delle due parti restano molto lontane.
Lo scambio di ostaggi, gli aiuti e la situazione nella Striscia
Il cuore dell’accordo si concentra sullo scambio di ostaggi. Hamas dovrà rilasciare tutti gli ostaggi israeliani ancora vivi, si ritiene siano una ventina, e restituire i corpi di ventotto persone morte in prigionia. In cambio, Israele libererà circa duemila prigionieri palestinesi, tra cui 250 condannati all’ergastolo e 1.700 persone arrestate dopo il 7 ottobre 2023, comprese donne e minori. Nello specifico, molti dei detenuti da Israele, sono sotto custodia amministrativa. Il che, significa che i detenuti si trovano in stato d’arresto per crimini che potrebbero aver commesso, ma di cui spesso e volentieri non conoscono l’entità e per i quali non si possono avvalere di alcuna consulenza legale.
La consegna degli ostaggi dovrebbe avvenire entro lunedì e sarà gestita dalla Croce Rossa, senza le cerimonie pubbliche che in passato avevano suscitato molte critiche per il loro carattere propagandistico. Nonostante le voci circolate nei giorni scorsi che ne promettevano il rilascio, Marwan Barghouti non sarà liberato. Lo ha confermato una portavoce del governo israeliano.
In quanto ad aiuti, l’accordo prevede anche l’ingresso di cibo, acqua e beni di prima necessità a Gaza, dopo due anni in cui Israele aveva fortemente limitato o bloccato i rifornimenti, provocando una grave crisi umanitaria. Secondo il piano americano, gli aiuti dovrebbero essere gestiti dalle Nazioni Unite e da altre organizzazioni internazionali. Non sarà più svolta da Gaza Humanitarian Foundation l’organizzazione creata da Israele che aveva sollevato molte polemiche per la gestione dei rifornimenti.

Trump, Netanyahu e la diplomazia del potere
Dietro la firma dell’accordo c’è però anche una complessa partita politica, che ha messo in luce il rapporto difficile tra Donald Trump e Benjamin Netanyahu.
Il primo ministro israeliano, che in passato era riuscito a manipolare o resistere alle pressioni di diversi presidenti americani, questa volta ha dovuto cedere. Già a gennaio Trump aveva mediato un cessate il fuoco, fallito poi a marzo per le violazioni israeliane. Ma nelle ultime settimane il presidente americano ha deciso di forzare la mano a Netanyahu, convinto che la guerra si fosse trasformata in un problema politico anche per gli Stati Uniti.
Un episodio in particolare avrebbe cambiato gli equilibri. Il bombardamento israeliano di un edificio in Qatar, dove si trovavano alcuni membri di Hamas. L’attacco, avvenuto il mese scorso, ha irritato profondamente gli alleati arabi e lo stesso Trump, che ha costretto Netanyahu a scusarsi pubblicamente con l’emiro del Qatar. Il Qatar, da sempre un attore centrale nelle mediazioni mediorientali e in rapporti stretti con Trump, è uno dei paesi che hanno contribuito a rendere possibile l’accordo.
Da quel momento, secondo varie ricostruzioni, Trump avrebbe approfittato della debolezza politica di Netanyahu per imporgli la sua versione del piano di pace, annunciata poi con una conferenza stampa alla Casa Bianca il 29 settembre.
Netanyahu sperava che Hamas rifiutasse il piano, ma l’organizzazione, ormai indebolita e isolata, ha invece accettato, chiedendo solo modifiche minori.
Quando il primo ministro israeliano ha provato a protestare, Trump gli avrebbe risposto bruscamente: “Non capisco perché ca**o sei sempre così negativo. È una vittoria, prendila”.
Da quel momento, il presidente americano ha potuto rivendicare il successo come una prova della sua abilità negoziale. Per Trump, la fine della guerra a Gaza è, sì, una vittoria diplomatica, ma è anche una carta politica da giocare in un momento in cui l’opinione pubblica americana è divisa e il Medio Oriente resta una ferita aperta per la diplomazia statunitense.
Pace? I punti ancora da chiarire
Molti aspetti dell’accordo restano comunque indefiniti. Non è stato ancora chiarito se Israele e Hamas abbiano trovato un’intesa sul disarmo del gruppo palestinese, né se si sia discusso della composizione del futuro governo di Gaza, tema particolarmente delicato. Non si sa inoltre se Hamas abbia ottenuto dagli Stati Uniti la garanzia che Israele non riprenderà i bombardamenti una volta liberati gli ostaggi, una condizione che l’organizzazione considerava fondamentale.
Anche la cerimonia ufficiale del cessate il fuoco, che secondo Trump dovrebbe svolgersi in Egitto con la sua presenza, non ha ancora una data certa. La firma dell’accordo è arrivata, tra l’altro, a poche ore dall’annuncio del premio Nobel per la Pace. Querst’ultimo, un riconoscimento a cui Trump aspira da tempo e che molti analisti ritengono abbia influito sul tempismo con cui è stato chiuso l’accordo.
La firma dell’accordo è sicuramente il primo segnale concreto di fine del conflitto, ma non la fine della guerra. Hamas parla di “ritiro dell’occupazione israeliana e ingresso degli aiuti umanitari”, mentre Netanyahu ha preferito limitarsi al tema della liberazione degli ostaggi, evitando riferimenti espliciti al ritiro. Rimane da capire se come ulteriore atto intimidatorio o se effettivamente non abbia intenzione di mettere un punto a questo capitolo della storia.
Per i palestinesi, dopo anni di bombardamenti e distruzione, questa tregua potrebbe significare una pausa necessaria per sopravvivere e per rimettere insieme quei pochi pezzi rimasti. Per Israele, invece, l’intesa potrebbe essere un momento di riflessione dopo due anni di guerra costosa e senza il risultato dichiarato: la distruzione di Hamas.
In ultima istanza, per Trump, questa è un’occasione di autoproclamarsi artefice di una pace storica, anche se ancora tutta da costruire. Insomma, il primo passo è stato fatto, ora tocca alla volontà delle parti sancire i principi di questa pace, desiderata a livello globale.



